Ruberò parola per parola una parte del saggio “Il coraggio di scegliere – riflessioni sulla libertà” di Fernando Savater, per capire meglio una condizione umana che rende i miei giorni carichi di riflessioni, conversazioni al riguardo e lunghi silenzi.

Scegliere.

Scegliere non è mai facile eppure non agire sembra una condizione contemporanea di frequente assunzione.

La mia non è un appunto a nessuno o nessun fatto. E’ un punto di partenza che condivido perché troppi, molti, numerosi amici e non vedo come me giungere davanti a bivi importanti e diversi da quelli già vissuti in passato.

 

Scegliere.

Le mie scelte raccontano chi sono, la mia razza.

Scegliere.

Le mie scelte mi pongono da una parte o l’altra di una riga sia essa politica, sociale, morale, religiosa…ecc.

Scegliere.

Sempre e comunque.

 

Dal saggio….

Consideriamo l’uomo in se stesso. Che cosa lo definisce?

Dice Gehlen che è un essere prassico, ovvero un essere che agisce. Che vuole fare delle cose e che fa cose che vuole fare. “Agire” dev’essere qualcosa di più che  nutrirsi e riprodursi a differenza degli animali. “Agire” non significa solo attivarsi per soddisfare un istinto, bensì portare a compimento un progetto che va oltre la sfera istintiva, fino al punto da renderla irriconoscibile o da supplirne l’assenza.

 

L’azione è legata alla previsione, ma anche all’imprevisto: significa cercare di prevedere giocando con l’imprevedibilità, nella certezza della sua incertezza.

E’ un modo intraprendente di rispondere alle urgenze e alle sollecitazioni della realtà plurale, ma anche di esplorarla e di scoprire in essa le potenzialità ancora non realizzate. L’essere attivo non soltanto opera a causa della realtà, ma attiva la stessa realtà, la mette in moto in un modo che non avrebbe mai avuto luogo senza il suo intervento.

 

L’azione dà origine all’essere umano. Come ben sottolineò Aristotele distinguendo fra praxis e poiesis, l’azione non è fabbricazione di oggetti o di strumenti, bensì creazione di umanità. La praxis è auto poietica: l’attività principale dell’uomo è auto inventarsi e dare forma a se stesso.

 

Per agire si richiede indubbiamente conoscenza (per sapere, fin dove è possibile, come stanno le cose e di che natura sono) e immaginazione (per approntare virtualmente i progetti compatibili con la loro natura, in grado di portarci alla realizzazione dei nostri ideali pratici, diversi e a volte contrastanti fra loro), ma consiste principalmente nella decisione su ciò che si farà, scegliendo fra i progetti presenti nel “menù” di ciò che sembra possa essere fatto.

Agire significa essenzialmente scegliere, e scegliere consiste nel coniugare adeguatamente conoscenza, immaginazione e decisione nel campo del possibile.

 

Se agiamo per ignoranza, vale a dire senza sufficiente conoscenza o con una nozione erronea dello stato delle cose sui cui stiamo per intervenire, è giusto affermare che il nostro atto non è totalmente volontario: facciamo ciò che sappiamo, ma non sappiamo del tutto ciò che facciamo.

Se avessimo saputo di più o meglio, possiamo supporre che avremmo agito in altro modo.

Tuttavia, tale deficienza non annulla completamente la volontarietà della nostra decisione. Altrimenti, il campo delle nostre azioni si ridurrebbe prodigiosamente, perché quasi mai siamo in possesso di una conoscenza completa e del tutto affidabile delle circostanze passate, presenti e future in cui la nostra attività va a iscriversi.

 

La necessità di agire è maggiore della possibilità di conoscere.

Kant.

Noi operiamo, dunque, in base a ciò che conosciamo e a dispetto di ciò che non sappiamo o conosciamo male. In determinate scelte, l’ignoranza è decisiva e possiamo affermare che invalida completamente la volontarietà del nostro gesto: per esempio, se nel tentativo di placare la mia sete bevo un bicchiere d’acqua avvelenata che io credo limpida e sana, come accade alla fine di Amleto.

Ma in altre occasioni devo agire in base a probabilità e certezze alquanto dubbie, come quando assumo una posizione politica o decido di sposarmi.

Queste scelte sono volontarie, ma devono accettare nella loro realizzazione una componente d’incertezza e, pertanto, di involontarietà.

Naturalmente, se si viene costretti al punto di non poter scegliere (come nel caso di un prigioniero che deve gettarsi in mare, con le mani legate e spinto dalla sciabola del pirata alle sue spalle), l’atto non è volontario….

Ma è diverso il caso in cui ci vediamo costretti ad agire in un ambito ristretto di circostanze, che limitano le nostre opzioni – offrendoci, per esempio, solo l’alternativa fra il male e il peggio – senza però annullare del tutto la nostra capacità di scegliere.

Nel caso del Capitano della nave che, in piena tempesta, deve scegliere fra il gettare in mare il carico, per bilanciare la nave, o correre il rischio più grave di naufragare, o nel caso del Ferito che autorizza il chirurgo ad amputargli la gamba in cancrena, nel tentativo di salvarsi la vita, l’individuo agisce spinto dalla forza delle circostanze.

Non si può negare che in questi casi sia presente la scelta e, pertanto, la volontarietà, ma si tratta di una volontà obbligata a scegliere qualcosa che in realtà è in opposizione con la volontà più ampia del soggetto, il quale in un contesto più clemente non avrebbe fatto quella scelta.

 

Con buona pace per Aristotele, la disposizione volontaria delle nostre azioni è contrassegnata da due costrizioni irrimediabili.

La nostra conoscenza dello stato delle cose e la nostra immaginazione per presupporre alternative possibili soffrono del limite dell’incertezza.

Non sappiamo mai tutto, non siamo mai sicuri di sapere abbastanza o di non ignorare il dato più importante: l’unica cosa che riusciamo sempre a prevedere con assoluta certezza è l’agguato dell’imprevisto…

Anche quando la mancanza di conoscenza non invalida del tutto la volontarietà, comunque la condiziona pesantemente, talvolta in maniera decisiva e scoraggiante. Tuttavia, il nostro bisogno di agire va oltre l’effettiva portata della nostra conoscenza e della nostra immaginazione.

Anche se queste carenze ci limitano e, a volte, ci tradiscono, non riescono però a paralizzarci. E quella stessa necessità di agire costituisce la seconda coazione che limita la nostra volontà, perché nella maggior parte dei casi dobbiamo agire irrimediabilmente in un contesto di fatalità.

Quanto più le circostanze ci obbligano ad agire con urgenza, tanto più quelle stesse circostanze restringono e definiscono l’ambito delle nostre scelte pratiche: sono incalzanti, ma equivoche.

La combinazione dell’incertezza e della fatalità che ci spinge ad agire la chiamiamo di solito caso.

Ci aggiriamo nel caso come in un labirinto, “il labirinto degli effetti e delle cause” di cui parlò quel grande maestro di labirinti che fu Borges.

 

Ecco a voi un racconto di Frank R. Stockton che s’intitola The lady or the tiger?

Si racconta che in passato assai remoto esistesse un re semi-barbaro che amministrava la giustizia in modo allo stesso tempo spettacolare e bizzarro.

Per punire i crimini particolarmente gravi aveva concepito una singolare ordalia. L’accusato veniva condotto, in un certo giorno, nell’arena di un circo, sulle cui gradinate si affollava il popolo riunito. Davanti a lui vi erano due porte: dietro una di esse, vi era una tigre affamata; dietro l’altra, si trovava invece una bella fanciulla, seducente e verginale. Solo il Re sapeva chi fosse in attesa dietro le due porte. Il reo era costretto a scegliere immediatamente fra le due porte. In entrambi i casi, la sua sorte era segnata; se compariva la fiera, moriva dilaniato in pochi istanti; se usciva la dama, doveva sposarla seduta stante e con grandi festeggiamenti, con il monarca in persona come testimone delle nozze, annullando qualunque matrimonio o impegno contratto in precedenza. A voi decidere quale fosse il destino più crudele…

Una volta si presentò il caso di un criminale accusato di un delitto molto grave: povero plebeo, aveva avuto l’ardire di corteggiare in segreto l’unica figlia del Re, la quale aveva corrisposto appassionatamente, seppure di nascosto, il suo amore.

Per il suo giudizio nella fatidica arena, quel barbaro re cercò accuratamente la tigre più vorace, ma scelse anche la più deliziosa delle fanciulle come alternativa.

Sconvolta, la principessa innamorata si vide lacerata da una doppia angoscia: da un alto, vedere quel corpo amato e accarezzato fatto a pezzi, dall’altro assistere al matrimonio del proprio innamorato con una bella ragazza, alle cui attrattive ella sapeva bene che il giovane colpevole non era del tutto indifferente.

Con astuzie di donna e arroganza di principessa, riuscì a sapere quale fosse la porta che, nell’arena, corrispondeva ad ognuno degli indesiderati destini.

Il giovane sembrava confuso nel circo, incalzato dalle aspettative della moltitudine.

Anch’egli conosceva l’intimo dilemma dell’amata e dall’arena le lanciò unos sguardo supplichevole: “Solo tu puoi salvarmi!”. Con un gesto discreto, ma inequivocabile, la principessa indicò la porta destra. E questa scelse il condannato senza esitare.

Ora trascrivo come Stockton conclude il suo racconto:

Il problema della decisione della principessa non può essere considerato con leggerezza e non pretendo di essere l’unica persona in grado di risolverlo. Pertanto lascio che sia ognuno di voi a rispondere: Chi uscì dalla porta destra…. la dama o la tigre?