Nel romanzo breve o racconto lungo di Paolo Nori dal titolo I malcontenti c’è un pezzo che comincia dicendo che quelli che erano nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevano dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che erano nati negli anni trenta, e avevano vent’anni negli anni cinquanta, avevano dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che erano nati negli anni quaranta, e che avevano vent’anni negli sessanta, avevano dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che erano nati negli anni cinquanta, e che avevano vent’anni negli anni settanta, avevano dovuto contestare perché il loro mondo così come era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità e non so bene cosa. Poi erano arrivati quelli nati negli anni sessanta e che avevano vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevano fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.

Il pezzo sugli anni e quelli che avevano vent’anni si fermava lì; l’autore è nato nel ’63.

Io sono nata negli anni ottanta e avevo vent’anni negli anni dieci – si dice così? – del ventunesimo secolo. Solo che a me adesso questa storia delle generazioni non mi torna tanto; si è perso il senso dei concetti e i sentimenti assoluti come diceva Carver, lo scrittore. Insomma, adesso sono saltati i confini tra le cose, così come i riti di passaggio nella vita dell’uomo non fanno più stagione.

Si va a fare la guerra in un altro paese, si ricostruiscono altri paesi, si manifesta in altri paesi, tua madre diventa tua sorella che vuole uscire con te in discoteca e tua figlia diventa l’amica di tua sorella prima che esca dalle medie, tuo padre ha gli stessi problemi lavorativi che hai tu, tuo nonno impara a navigare sul web ed è lui che ti chiama e ti dice le ultime novità.

Eppure, io mi considero tra quella generazione che ha visto nascere il cellulare, la rete e la moneta unica. Oppure tra quelli che più morti abbiamo visto, non dal vivo, chiaro, ma al telegiornale, su youtube, testate e via dicendo. I mezzi di comunicazione! Abbiamo letto del Vietnam nei libri o meglio visto Apocalypse now, a scuola abbiamo studiato la prima e la seconda guerra mondiale, abbiamo visto in tv la guerra in Kosovo, poi l’Afganistan e poi la Libia e poi… Africa? Abbiamo mai seguito veramente le guerre in Africa?

Mia madre dice che empiezo a costruir la casa por el techo – che costruisco la casa dal tetto -, per forza! Bruciare le tappe in fretta e sentirsi giovani in eterno è un’altra cosa che caratterizza la mia generazione. Solo che non saprei trovare una frase significativa per continuare il pezzo di Paolo Nori, che lui nato nel ’63, si è fermato alla propria.

Anche adesso che penso alla mia generazione non mi convince molto questa storia delle generazioni; trovo delle cose che forse unisce chi è nato come me negli anni ottanta, ma credo che si potrebbe aprire un dibattito lunghissimo perché sono certa non mi troverei d’accordo con tanti e molti con me. Noi con i forum ci abbiamo fatto un nascondiglio perfetto.

I no-global sono nostri. Anche la globalizzazione. E la parola pedofilia nel linguaggio comune. I pedofili ci sono da sempre, certo, ma questa parola prima non si usava così tanto, persino al bar o scritta sui muri.

Le baby gang, no, le baby gang sono della generazione seguente. I bulli c’erano prima, ma le gang, così come le vediamo in rete, no.

La mafia c’è da sempre ma ora abbiamo gli scrittori che scrivono sui mafiosi. Il padrino non bastava, no.

Cosa altro…

corso ticinese luglio 2011

E’ che leggendo questo romanzo breve o racconto lungo di Nori, mi sono sentita chiamata in causa ad ogni pagina sulla questione. Un personaggio – lui – che man mano che va avanti l’azione narrativa, s’interroga sulle proprie abitudini presenti e le mette a confronto con quelle proprie di ieri e con quelle di suo padre. Superficialmente, certo, non è un libro generazionale, ma sincero.

Io per esempio, leggendo il libro, ho pensato che sono distante dalla fame da una generazione. Mia nonna la pativa – mi diceva sempre che mangiavano carne, (pollo), una volta al mese quando si poteva – e poi mia madre non la patisce, anzi, la buttava e la butta spesso perché avanza dalla grigliata al mare. Poi, me, che non riesco ad aprire un mutuo o fare un figlio, sono comunque avanti di tanto rispetto a mia nonna e questo mi da una certa responsabilità che mi fa dormire male certe volte quanto sento di avere un debito con lei e le sue mancanze. Non che lei me le rimproverasse, anzi, ma lo sento dentro. Allora questa storia delle generazioni mi torna, perché lo faccio sulla mia famiglia, ed è privato, personale, singolare perché mio. Ma in generale, storicamente, su un certo numero elevato d’individui come me, mi sento un po’ come al call center, non so se mi spiego.

Forse ci vorranno altri vent’anni per capire quella frase alla Nori che possa racchiudere un’intera generazione come la mia. Cercare quella frase – cioè fare la fatica di essere semplici e assoluti – mi darebbe sollievo, perché vorrebbe anche dire che senza il senno di poi, hai una possibilità lucida per continuare a rientrare nella frase oppure no.